sabato 7 giugno 2014

GASTRONOMIA CASTELLANETANA



Castellaneta abbraccia un territorio di circa 24000 ettari, che spazia dalla collina boscosa al mare, dalla Murgia brulla alla gravina, dal fiume Lato che la costeggia per un ampio tratto a sorgenti d’acqua purissima ed a  minuscoli laghetti che la punteggiano con la loro incomparabile bellezza.
Quest’ampia varietà di paesaggi le consente di offrire un ventaglio, quasi completo, di prodotti agro.-pastorali: grano, olive, uva da vino e da tavola,un’ampia varietà di prodotti orto-frutticoli, carni pregiate dagli allevamenti locali, latticini e formaggi tipici, pesce fresco dalla zona costiera, diverse varietà di funghi e di erbe aromatiche dalla zona collinare ed, anche se in piccole quantità, noci e mandorle.  .
Più o meno influenzato dai popoli che si sono avvicendati sul nostro territorio: Fenici, Greci, Romani, Arabi, Longobardi, Normanni, Angioini, Spagnoli … con il suo sincretismo, il paese offre un’armonia ineguagliabile di sapori ed una fragranza straordinaria di aromi naturali, malgrado la povertà calorica dei suoi ingredienti.
Con i prodotti, che la nostra terra  offre già ricchi di sapore,in ogni stagione , è possibile realizzare ogni tipo di preparazione culinaria, dalla più semplice alla più raffinata, senza eccessive manipola- zioni. A partire dal grano lessato e condito con poco olio , i nostri progenitori sono passati alla “ndròmese” una polenta in brodo vegetale che, riproposta da una decina d’anni, riscuote vivo apprezzamento insieme “a farenèdde”- un misto di granturco, ceci,fave arrostite, carrube ed un pizzico di peperoncino in polvere, macinati ed utilizzati sia in polvere che conditi con vari intingoli. Non vanno dimenticate le friselle che, con un filo d’olio ed una spruzzata di semi di pomodoro rappresentano una gustosissima colazione o una  cena sfiziosa, insieme alle focacce più estrose nei  condimenti  e poi le orecchiette con i frecjìdde,  in cui si concentrano maggiormente i valori della nostra identità culinaria. Non dimentichiamo i cavatjìdde e a tagghjarìne, che si sposano magnificamente con ceci e fagioli e poi  le fave con le cicorielle campestri; i cardoncelli selvatici,in brodo d’agnello, gli asparagi nelle frittate , i lambasciùne con le patate nelle teglie di agnello al forno, ed ancora i marretti, i gnummerèdde, i capùzze  e i treppecèdde d’agnjìlle o fùrne, i còzze – alias  animelle con i piselli, il cervello con i carciofi.
 Straordinarie specialità ricavate dagli scarti delle macellerie,che la gente del popolo ha trasformato in autentiche leccornie, specialmente se si sgranocchiano insieme ortaggi crudi: cime di cicorie, sedani, finocchi, ravanelli, rucola, Non si contano le ricette a base di carne di pollame e di conigli,
 presenti sulla tavola di ricchi e poveri, insieme alla carne di maiale fresca o trasformata in salumi, sempre aromatizzati con semi si finocchio e peperoncino. Ortaggi di grande versatilità entrano da protagonisti in pietanze estremamente semplici come le zucchine “a priatòrj”, i peperoni “arracanète”, le melanzane “a  fungetjìdde”, patate al forno, rape stufate, pasta e rape, pasta e cavoli, pasta olio e aglio con un pizzico di peperoncino, pasta con la rucola, con i funghi, soprattutto cardoncelli, ma anche lardari e “pecherjìdde”, e poi carciofi e fagiolini con l’occhio,autentiche specialità locali utilizzate in pietanze indimenticabili per il loro sapore fresco e inimitabile. Una voce importante del  panorama gastronomico è  quella rappresentata da  latticini e formaggi, fiore all’occhiello di  un territorio che è stato ,per secoli, zona d’approdo di un’ imponente transumanza. Oltre al formaggio pecorino, la cui produzione si riduce di anno in anno,  ai caciocavalli, provoloni, manteche, mozzarelle, ricotta, il prodotto più rappresentativo è la ricotta piccante,  utilizzata come condimento per la pasta e legumi, sulle bruschette calde, sulle focacce sfrigolanti, nei panzerotti al pomodoro. Prodotti d’alta qualità  sempre presenti, nel pasto più semplice come nel più raffinato, giacché, come asserisce il gastronomo francese James de Coquet:“Un  pasto senza formaggio è come una bella donna con un occhio solo”.
Semplici, fino all’essenziale, i piatti a base di pesce. Soprattutto  i meno pregiati e i più piccoli che rimangono impigliati nelle reti :” a menòsce”, hanno trovato un’utilizzazione popolare fantastica, nelle frittate e nelle croccanti  polpette a base di pesce. Sarde ed alici fresche , arrostite sulla brace, “alla crudèle”  senza alcun condimento, rappresentano un pasto molto appetitoso, ma anche semplicemente fritte, ammollicate  o spinate e indorate con l’uovo, diventano molto gustose. Le alici salate riescono ad esaltare il sapore di  varie  pietanze  e insalate, insieme alle cozze nere,utilizzate nei modi più svariati. Più raffinate nel gusto le cozze San Giacomo, le vongole, i cannolicchi sempre più rari,le ostriche, le cozze pelose che, mangiate crude” al naturale”,  ralle- grano la tavola delle vigilie. Le ricette ricorrenti nella cucina tradizionale utilizzano, in larga parte,il pesce azzurro: trauli, vope, raja, aguglie, maccarello, palombo, cefalo; meno praticati: gamberi, scorfani, merluzzo,orate, spigole, capitoni. Le preparazioni spaziano dalle zuppe agli arrosti sulla brace,con una speciale predilezione per le fritture,ma anche il pesce al forno merita un posto di tutto rispetto. Gustosissima la raia o razza con le patate al forno, le seppie ripiene con patate e lampagio-
ni,gratinate in forno, altrettanto dicasi del pesce palombo. Non dimentichiamo il baccalà e lo stocca- fisso che, con ricette fantasiose a base di ortaggi ed erbe aromatiche, hanno un posto di rilievo nella tradizione alimentare. Viene preparato a zuppa, alla pizzaiola con capperi, olive, cipolla e pomodoro, lesso e condito con olio, limone e pepe, sbriciolato e soffritto con abbondante cipolla per condire spaghetti e linguine. Tutte le preparazioni alimentari adottano  come condimento solo olio extravergine d’oliva, il prodotto più rispondente ai principi fondamentali della fisiologia umana,
a qualsiasi età. E’ ideale per piatti caldi e freddi, di cui fissa e potenzia i sapori, poiché il nostro olio è gradevole  e gustoso,sia da giovane quando, appena spremuto, contiene tutta la fragranza dei frutti freschi, sia maturo,quando è perfettamente limpido. Attore protagonista della tavola è poi il nostro  vino. Robusto, corposo e  aromatico il primitivo, definito “la carne dei contadini” dal momento che,
oltre che una bevanda ha rappresentato, in passato, un alimento, per il suo alto potere energetico.
Il nostro rappresenta il comprensorio a più alta produzione vinicola e si distingue per l’ampia diversificazione del prodotto,che spazia dai vini bianchi, leggeri e amabili, a quelli rosati, asciutti e fruttati, fino a quelli rossi , vigorosi e sapidi, comprendendo tutta la gamma produttiva in campo enologico..In genere i nostri cibi tradizionali vanno accompagnati dai vini locali, più idonei ad un corretto abbinamento, perché da secoli si sono integrati tra loro, fino a realizzare un felice connubio.
Dall’insieme emerge una cucina eclettica, ricca d’ingredienti e capace di sorprese  esaltanti per il gusto, con i suoi piatti freschi, leggeri e saporiti
Un discorso a parte meritano i dolci, specialmente quelli devozionali, che compaiono su tutte le tavole. Un’antica canzone popolare, dedicata al Natale, ricorda che: “A ci che lu zùcchere e a ci che lu mèle, a tùtte sfùme la ciumenère” a testimonianza del fatto che, durante le feste, le pietanze
e i dolci tipici  erano presenti in ogni casa. Questo atavico  attaccamento a certe tradizioni  evi-
denzia l’annullamento di ogni discriminazione e la sparizione di ogni tipo di classismo  dal    mo-mento che, per solennizzare le feste religiose, nessuno rinunciava al rituale gastronomico rimasto fedele agli ingredienti ed alle ricette del passato. Rappresentava, quindi, una manifestazione di ag-
gregazione popolare e di fusione spirituale. Attualmente  il loro uso ha perso il significato origina-
rio ma, in passato,  i dolci  e le pietanze della festa rivestivano tutti un valore simbolico e la ritua-lità della preparazione e della consumazione era connessa alla credenza che fossero apportatori di
di  benessere fisico oltre che spirituale. Strettamente legata alle varie tappe stagionali ed alle feste che vi sono connesse, la preparazione in famiglia, quasi sempre corale, era scandita dalla recita di
formule e di segni di croce ed aveva funzione di ringraziamento a Dio per i prodotti della terra di cui erano composti. La loro buona riuscita rappresentava un motivo di vanto per le donne ed era considerata anche di buon auspicio, altrimenti diventava motivo di malumore e di ansia per even-
tuali malanni o ristrettezze economiche.
Pur nella estrema semplicità degli ingredienti: farina, acqua, sale, olio, cannella, sciroppo di vino o di fichi, le” cartellate” rappresentano il dolce più poetico e raffinato della tradizione dolciaria lo- cale e di tutta la Puglia. Secondo una leggenda popolare rappresentano le fasce per avvolgere Gesù
Bambino. Ad esse si accompagnano immancabilmente i “purcjìdde” gnocchetti della stessa pasta
incavati su una superficie rugosa o bucherellata. Per i bambini, a Natale, si preparavano  anche dei
dolci a forma di stelle  con un foro al centro : “ i peccelatjìdde”. Rappresentavano le stelle che avevano illuminato la notte di Natale, perciò vi si infilava un nastrino e si appendevano ai rami di pino che ornavano il presepe. I fidanzati regalavano alle loro innamorate un “ cuore”di pasta reale, simbolo di amore sconfinato. Come contentino per i bambini, quando finivano le cartellate, le mam-
me  impastavano della farina con vincotto, olio e cannella e preparavano dei dolcetti di forma trape-
zoidale: “ i mustazzuèle”, di facile esecuzione, ma molto gustosi. A ringraziamento   della   produ-
zione olearia, il giorno della festa di San Nicola, si preparano ancora“ le pettole”, palline di pasta molle e soffice, fritte in olio d’oliva appena prodotto. Un cibo  devozionale , cui è legata una  delicata  leggenda. Si racconta che, quando la Madonna era in visita presso Santa Elisabetta, dopo  aver impastato il pane, si misero a chiacchierare, vagheggiando entrambe l’aspetto e le doti dei loro nascituri,dimenticando di controllare la lievitazione della pasta. Quando si accorsero che era lievita- ta  eccessivamente, pensarono di friggerla in piccoli quantitativi alla volta e così nacquero le pettole.
Nel periodo di Natale compariva sulla tavola il torrone di mandorle con e  senza buccia. Il torrone con le mandorle tostate e non sbucciate si chiama:” cupète”.
Fra Natale e Carnevale  si procedeva all’uccisione del maiale, che molte famiglie allevavano. Per solennizzare la festa che si svolgeva al termine della preparazione dei salumi, veniva offerto a tutti i partecipanti all’operazione ed a parenti e vicini “ u sangìcchj”,il sanguinaccio ottenuto,mescolando
al sangue del maiale  diversi aromi e facendolo cuocere a fuoco lento.
Per gustare appieno il sapore del vino e favorirne le bevute, durante i banchetti tra parenti ed amici,
si preparavano in casa i “taralli”,  aromatizzati con semi di finocchio o pepe. Avevano la forma di cerchietto o bastoncino,  simboli degli organi  sessuali.
Nel lungo periodo di astinenza della Quaresima, s’inseriva  la festa tanto attesa   di  San    Giuseppe che, insieme all’allegra tradizione del falò, consentiva la piacevole trasgressione delle “falle” pan-
zerottini di pasta frolla ripieni di marmellata d’uva da vino con tutti i noccioli,mescolata a mandor-
le, noci e cannella.
Chi era  a corto di marmellata, preparava dei dolcetti a forma di losanghe “i pesckaròdde”le pietruzze, a base di farina, zucchero, mandorle tritate e uova. Un’altra  trasgressione  all’astinenza quaresimale, durante la quale, esclusa la pasta condita con la mollica fritta “ u  furmàgge da Qua- rèseme” il pasto abituale era a base di verdura, legumi e baccalà, era rappresentata dai panzerotti di ricotta, preparati per solennizzare la festa delle Palme. Si potevano lessare e condire con sugo di pomodoro o friggere e servirli, a fine pasto.
Per il Venerdì Santo s’usava preparare il” calzone” una focaccia ripiena di cipolle novelle “ i spunzèle” , olive snocciolate,  capperi, uva passa,  filetti di acciughe. Un misto di dolce e salato,  d’ascendenza araba, molto apprezzato dai buongustai.
Dolci rituali della Pasqua, oltre ai taralli con le uova ricoperti di candida glassa,sono le “scarcelle”
guarnite di uova in numero dispari per sollecitare influssi propiziatori. Hanno forma di panierini,di asinelli con le uova nella bisaccia, colombe, farfalle ed ancora vere e proprie sculture rappresentanti “ u mòneche e a mòneche”, con una corona di uova sotto la tonaca. Questa usanza si rifà ad un antichissimo rito pagano, collegato al risveglio della natura, in cui l’uovo è considerato simbolo di rinascita. Per questo regalare un uovo significa regalare l’eternità, insopprimibile aspirazione umana. Il vertice della perfezione artistica si raggiunge nella preparazione di dolci di pasta reale, (in origine  appannaggio dei monasteri) che imitano i frutti e gli animali. Per Pasqua  si notano nelle vetrine delle pasticcerie agnellini  di varie dimensioni che vengono regalati ai bambini ed anche alle
fidanzate, usanza molto diffusa in passato, ma attualmente insidiata dall’intrusione delle uova di cioccolato.
Un discorso a parte meritano i fichi secchi, preparati seguendo una tecnica tramandataci dagli Arabi, per conservare tutte le loro proprietà nutritive e la loro morbidezza. Seccati, interi o spaccati in due, su graticci di canne i cannìzze” vengono lavati e infornati,poi riposti in profonde “capase” disposti a strati, aromatizzati con foglie di alloro e semi di finocchio. Venivano assaggiati la prima volta il giorno dei Morti, quando venivano distribuiti ai bambini. Quelli farciti di mandorle tostate e filetti di buccia di limone, venivano riservati alle tavolate di Natale.
Non vanno dimenticati i rosoli e gli sciroppi preparati, dosando sapientemente gli ingredienti.
Primo fra tutti il “nocino” per il quale le noci vanno raccolte il giorno di San Giovanni. E poi il rosolio al limone, al mandarino, all’alloro, alla mortella, il digestivo alle foglie di amarene messe in infusione in alcol e vino primitivo. Un ricco e vistoso patrimonio da tutelare  con impegno,perché non vada disperso.



Domenica Terrusi

LE FESTE RELIGIOSE




Ricca di un tessuto storico-sociale di notevole valore, Castellaneta affonda le sue radici in tempi lontani, risalenti alla preistoria. Nelle numerose spelonche della gravina e nell’intricato succedersi
di grotte, che si snoda sotto il colle Archinto, l’uomo preistorico ha trovato un naturale asilo. Ma,
oltre che terra d’insediamenti di civiltà indigene, Castellaneta è stato sempre un importante crocevia
attraverso il quale sono passati culture, personaggi, idee e religioni di diverse matrici. Ciascuna presenza ha lasciato una traccia che, poi, è emersa nel vivere quotidiano, nell’espressione artistica, nell’architettura civile e sacra, nell’evoluzione linguistica, nella memoria storica e nella spiritualità
in cui i vari apporti si sono armonizzati, con una prevalente consistenza della componente greco-bizantina e romana, Anche attualmente il nostro continua ad essere un paese di transito, in cui le popolazioni più varie si sono fuse armonicamente, grazie all’innato senso di ospitalità che ci contraddistingue. Non senza motivo si dice che i Castellani hanno due cuori: uno per i propri parenti ed uno per gli  estranei con cui entrano in contatto ed è anche per questo motivo che hanno eletto a loro protettore San Nicola che è “amante dei forestieri”. Questa vena fortemente ricettiva, attraverso la lunga dimestichezza con la cultura greca, ha permesso alla nostra gente di entrare
in contatto con le suggestioni delle componenti etiche e socio-economiche di una  società profondamente rispettosa degli dei e della religione. Queste nobili ascendenze storiche sopravvivono nelle nostre tradizioni religiose, soprattutto nel rituale dei miti che celebrano l’equinozio di primavera , come simbolo della rinascita della Natura. Per il Cristianesimo  si trasfor-
ma in sponsale unione della natura divina con quella umana nella persona di Cristo che si sacrifica per consentire all’uomo di passare dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita, dal dolore alla gioia.
E’questo lo spirito che anima i riti della Settimana Santa. e della Pasqua. Preceduti dalla Quaresi-ma che, da alcuni anni, torna ad essere simboleggiata dalle Quarantane: lugubri fantocci che raffigurano sei donne ed un uomo, quante sono le settimane della Quaresima. Appesi ad una canna, sospesa tra due finestre che si fronteggiano, nel centro storico, il fantoccio riferito ad ogni settimana viene eliminato, appena la settimana è trascorsa. I loro nomi, secondo l’ordine cronologico, sono: Jène, Pajène, Rubètte, Susànne, Làzzere, Pàlme e Sànde ed ognuno di questi fantocci rappresenta un mestiere. Durante  il periodo  quaresimale vengono organizzate le Quarantore, istituite  nel 1932 da mons. Potenza (pratica risalente al XVI sec.)  per ricordare le quaranta ore trascorse da Gesù nel sepolcro. In tutte le chiese  parrocchiali del paese, viene esposto all’adorazione dei fedeli Gesù Sacramentato. Le celebrazioni pasquali cominciano dal Lunedì Santo, ma è molto seguita dal popolo la messa del  Giovedì che rievoca l’Ultima Cena  e la Lavanda dei piedi. Dopo questa cerimonia, nelle chiese  si espone solennemente l’Ostia consacrata su altari intensamente illuminati,
adorni di fiori e di piatti di grano e legumi,fatti germogliare al buio, Essi richiamano un antico rito pagano in onore di Adone, bellissimo dio di origine fenicia,cui i popoli del Medio Oriente offrivano piatti di semi germogliati al buio per propiziarsi un felice ritorno della primavera.  Gli altari, così ornati, erroneamente denominati  Sepolcri, sono meta di pellegrinaggio e di preghiera da parte di comuni cittadini e di fratelli delle varie confraternite. Il Venerdì Santo si celebra la cosiddetta  “Messa sciuscète”, una paraliturgia durante la quale gli altari vengono spogliati degli arredi sacri, si coprono le croci e si legano le campane. Da quel momento il loro suono viene sostituito dalle “tocca tòcche”, battole di legno di forma rettangolare e terminanti a punta, munite di maniglie metalliche su entrambi i lati,che vengono agitate ritmicamente. Ad esse si associano “ i tròzzele” costituite da ruote dentate montate su un perno girevole che producono un rumore fragoroso nell’attrito con una
lamina flessibile di legno. Con questi strumenti, confratelli e ragazzi annunciano l’arrivo della processione dei Misteri ( statue rappresentanti l’itinerario figurativo dei misteri dolorosi) che, dopo la funzione religiosa del Venerdì Santo, esce dalla Cattedrale ed attraversa le vie del paese, tra ali di folla raccolta nel dolore della Passione. Le statue sono portate a spalla da devoti incappucciati che camminano scalzi ed indossano un saio bianco,stretto in vita da un cordone. Dietro le statue si snoda una doppia fila, la cosiddetta “colonna” di uomini vestiti di nero su camicia bianca, con guanti neri e una corona di spine sul capo. Anch’essi si alternano, in gruppi di quatto per volta,
nel trasporto delle statue, lungo i vicoli e i pendii del centro storico. La Statua dell’Addolorata
è seguita da una doppia fila di donne,  con vestito e  velo nero, che si alternano nel portarla a spalla, mentre cantano struggenti canzoni ispirate alla Passione di Gesù, accompagnate dal suono della banda cittadina,che riesce a trasmettere il pathos  di questa avvincente  manifestazione.
Il Sabato Santo, alle prima luci dell’alba, si svolge la processione di Gesù Morto e dell’Addolorata,
preceduta dal crocifero,a piedi scalzi,che trascina stancamente il suo carico appesantito, in passato, da una grossa pietra” a pesère; con lo stesso rituale e la stessa partecipazione commossa delle “colonne”  di uomini e donne ,vestiti di nero, che si alternano nel portare, a spalla, le statue.
Al rientro della processione, in tutte le chiese si celebra la messa del Gloria e si sciolgono le campa-
ne, che annunciano la Resurrezione. A quel suono, ancora oggi,le donne anziane battono con mazze o battipanni in tutti gli angoli della casa e sotto i letti, pronunciando la formula. “Jìsse,trìste,
(diavolo) ca à trasì Crìste!” Le mamme,in passato, liberavano dalle fasce i loro piccoli, li coprivano con un vestitino e li portavano ai piedi dell’altare maggiore,dove erano sepolti gli antenati. Sostenendoli in piedi, pregavano: “Sepuldùra,sepuldùre, fè scapelè stu criatùre.” Altre festività  che segnano il passaggio dall’inverno alla primavera sono quelle di San Giuseppe e dell’Annunziata, durante le quali si celebra il rito del fuoco purificatore, durante il quale si bruciano, nei falò, rami d’ulivo e sarmenti, provenienti dalla potatura. Da quei fuochi propiziatori i contadini traggono ancora indicazioni circa l’andamento dell’annata agraria. Due domeniche dopo Pasqua si svolge la festa patronale in onore di San Francesco da Paola,con processione del Santo,banda, illuminazione, orchestra e fuochi pirotecnici.
In questa rappresentazione pubblica di grande effetto socializzante, è più il popolo che la Chiesa
a gestire la festa, coinvolgendo tutte le componenti della comunità, poiché è sentita come una manifestazione d’identità collettiva. Il 24 giugno, nel tempo sacro del solstizio d’estate che segna il trionfo del sole e delle sua energia benefica, si celebra la festa di S. Giovanni, venerato  in  una chiesetta che s’affaccia sul burrone. Dal simbolismo solstiziale deriva l’usanza,molto diffusa, di trarre  presagi nella notte del 24  giugno ed è legata  la tradizione della gioiosa sagra rionale,organizzata dagli abitanti della contrada Muricello, in cui è ubicata la chiesa. A mezzo agosto  si conclude, con le vacanze estive, un anno lavorativo. Dopo la raccolta delle messi,acquista la funzione di ringraziamento la festa dell’Assunta,istituita dalla Chiesa, in sostituzione della festa pagana delle “Feriae Augusti”. La sera del 14 agosto si svolge un pio pellegrinaggio, con fiaccolata,  verso la chiesa romanica dell’Assunta, sul ciglio del burrone . Dopo la celebrazione della messa, a cui partecipano molti emigranti,la festa si conclude con i fuochi artificiali, in sintonia con il simbolismo della luce. Nel mese di ottobre, al tempo della raccolta degli ultimi frutti, della vendemmia e della preparazione del vino, i  riti precristiani prevedevano una festa quasi  carnascialesca, in onore di Bacco, dio del vino. A partire dal1573, il papa Gregorio XII  istituì la festa della Madonna del Rosario,a ricordo della vittoriosa battaglia di Lepanto sui Turchi ( 7 ottobre1571). Questa celebrazione è organizzata dalla parrocchia di S. Domenico con una processione resa spettacolare dalla partecipazione dei rappresentanti dell’omonima contrada che, con abiti domenicani e preceduti dal loro gonfalone, sfilano a cavallo. Il tutto allietato da banda, illuminazione e fuochi pirotecnici, ingredienti indispensabili di una festa che si rispetti. Subito dopo la commemorazione dei Defunti, caratterizzata da una corale visita al cimitero, trasformato in un giardino fiorito ed illuminato dalle lampade che brillano su quasi tutte le tombe, comincia a diffondersi un’atmosfera d’attesa e di preparazione al Natale. Si pregusta la gioia della ricomposizione dei nuclei familiari, che ricompatta la comunità. E’ stata definita la più pagana delle feste cristiane( Jean Danielou) giacché ricorda le feste pagane del “Solis Invicti” connesse al solstizio d’inverno. Già il 22 novembre le dolci note delle pastorali si diffondono per le strade cittadine e introducono alla magia della grande festa. A partire dal primo dicembre, osservando attentamente il cielo nei primi 12 giorni del mese, i contadini cercavano di pronosticare l’andamento climatico dei mesi dell’anno successivo, saltavano il giorno di Santa Lucia e, a partire dal 14 dicembre, contavano i giorni al contrario  cercando, attraverso l’osservazione del cielo, di ot-
tenere conferma ai pronostici raccolti precedentemente. Durante la festa di San Nicola e dell’Immacolata,con l’assaggio dell’olio nuovo attraverso la frittura delle pettole,  si entra in piena atmosfera natalizia e si dà avvio alla preparazione del presepe,nelle case e nelle chiese, ad esaltazione della sacralità della famiglia. Al fine di recuperare quest’antica tradizione,che andava scomparendo,  soppiantata dall’allestimento dell’albero di Natale, vengono organizzati  concorsi a premi, per cui in diversi locali  del centro storico è possibile ammirare presepi realizzati in diversi stili, ma tutti ispirati alle tipologie iconografiche della nostra tradizione                               
Il ciclo delle feste religiose strettamente connesso,come abbiamo visto, al ciclo produttivo e affidato alla Provvidenza, insieme all’azione del sole, delle fasi lunari, del vento, della pioggia, rappresenta una cerniera tra epoche diverse,in cui affonda la nostra identità.  


Domenica Terrusi