Castellaneta abbraccia un territorio di circa 24000 ettari,
che spazia dalla collina boscosa al mare, dalla Murgia brulla alla gravina, dal
fiume Lato che la costeggia per un ampio tratto a sorgenti d’acqua purissima ed
a minuscoli laghetti che la punteggiano
con la loro incomparabile bellezza.
Quest’ampia varietà di paesaggi le consente di offrire un
ventaglio, quasi completo, di prodotti agro.-pastorali: grano, olive, uva da
vino e da tavola,un’ampia varietà di prodotti orto-frutticoli, carni pregiate
dagli allevamenti locali, latticini e formaggi tipici, pesce fresco dalla zona
costiera, diverse varietà di funghi e di erbe aromatiche dalla zona collinare
ed, anche se in piccole quantità, noci e mandorle. .
Più o meno influenzato dai popoli che si sono avvicendati
sul nostro territorio: Fenici, Greci, Romani, Arabi, Longobardi, Normanni,
Angioini, Spagnoli … con il suo sincretismo, il paese offre un’armonia
ineguagliabile di sapori ed una fragranza straordinaria di aromi naturali,
malgrado la povertà calorica dei suoi ingredienti.
Con i prodotti, che la nostra terra offre già ricchi di sapore,in ogni stagione ,
è possibile realizzare ogni tipo di preparazione culinaria, dalla più semplice
alla più raffinata, senza eccessive manipola- zioni. A partire dal grano
lessato e condito con poco olio , i nostri progenitori sono passati alla “ndròmese” una polenta in brodo vegetale
che, riproposta da una decina d’anni, riscuote vivo apprezzamento insieme “a farenèdde”- un misto di granturco,
ceci,fave arrostite, carrube ed un pizzico di peperoncino in polvere, macinati
ed utilizzati sia in polvere che conditi con vari intingoli. Non vanno
dimenticate le friselle che, con un
filo d’olio ed una spruzzata di semi di pomodoro rappresentano una gustosissima
colazione o una cena sfiziosa, insieme
alle focacce più estrose nei
condimenti e poi le orecchiette
con i frecjìdde, in cui si concentrano maggiormente i valori
della nostra identità culinaria. Non dimentichiamo i cavatjìdde e a tagghjarìne,
che si sposano magnificamente con ceci e fagioli e poi le fave con le cicorielle campestri; i
cardoncelli selvatici,in brodo d’agnello, gli asparagi nelle frittate , i lambasciùne con le patate nelle teglie
di agnello al forno, ed ancora i
marretti, i gnummerèdde, i capùzze e i
treppecèdde d’agnjìlle o fùrne, i còzze – alias animelle con i piselli, il
cervello con i carciofi.
Straordinarie specialità ricavate dagli
scarti delle macellerie,che la gente del popolo ha trasformato in autentiche
leccornie, specialmente se si sgranocchiano insieme ortaggi crudi: cime di
cicorie, sedani, finocchi, ravanelli, rucola, Non si contano le ricette a base
di carne di pollame e di conigli,
presenti sulla tavola
di ricchi e poveri, insieme alla carne di maiale fresca o trasformata in salumi,
sempre aromatizzati con semi si finocchio e peperoncino. Ortaggi di grande
versatilità entrano da protagonisti in pietanze estremamente semplici come le
zucchine “a priatòrj”, i peperoni “arracanète”, le melanzane “a fungetjìdde”,
patate al forno, rape stufate, pasta e rape, pasta e cavoli, pasta olio e aglio
con un pizzico di peperoncino, pasta con la rucola, con i funghi, soprattutto cardoncelli,
ma anche lardari e “pecherjìdde”, e
poi carciofi e fagiolini con
l’occhio,autentiche specialità locali utilizzate in pietanze indimenticabili
per il loro sapore fresco e inimitabile. Una voce importante del panorama gastronomico è quella rappresentata da latticini e formaggi, fiore all’occhiello di un territorio che è stato ,per secoli, zona
d’approdo di un’ imponente transumanza. Oltre al formaggio pecorino, la cui
produzione si riduce di anno in anno, ai
caciocavalli, provoloni, manteche, mozzarelle, ricotta, il prodotto più
rappresentativo è la ricotta piccante, utilizzata
come condimento per la pasta e legumi, sulle bruschette calde, sulle focacce
sfrigolanti, nei panzerotti al pomodoro. Prodotti d’alta qualità sempre presenti, nel pasto più semplice come
nel più raffinato, giacché, come asserisce il gastronomo francese James de
Coquet:“Un pasto senza formaggio è come
una bella donna con un occhio solo”.
Semplici, fino all’essenziale, i piatti a base di pesce.
Soprattutto i meno pregiati e i più
piccoli che rimangono impigliati nelle reti :” a menòsce”, hanno trovato un’utilizzazione popolare fantastica,
nelle frittate e nelle croccanti
polpette a base di pesce. Sarde ed alici fresche , arrostite sulla
brace, “alla crudèle” senza alcun condimento, rappresentano un pasto
molto appetitoso, ma anche semplicemente fritte, ammollicate o spinate e indorate con l’uovo, diventano
molto gustose. Le alici salate riescono ad esaltare il sapore di varie
pietanze e insalate, insieme alle
cozze nere,utilizzate nei modi più svariati. Più raffinate nel gusto le cozze
San Giacomo, le vongole, i cannolicchi sempre più rari,le ostriche, le cozze
pelose che, mangiate crude” al naturale”, ralle- grano la tavola delle vigilie. Le
ricette ricorrenti nella cucina tradizionale utilizzano, in larga parte,il
pesce azzurro: trauli, vope, raja, aguglie, maccarello, palombo, cefalo; meno
praticati: gamberi, scorfani, merluzzo,orate, spigole, capitoni. Le
preparazioni spaziano dalle zuppe agli arrosti sulla brace,con una speciale
predilezione per le fritture,ma anche il pesce al forno merita un posto di
tutto rispetto. Gustosissima la raia o razza con le patate al forno, le seppie
ripiene con patate e lampagio-
ni,gratinate in forno, altrettanto dicasi del pesce palombo.
Non dimentichiamo il baccalà e lo stocca- fisso che, con ricette fantasiose a
base di ortaggi ed erbe aromatiche, hanno un posto di rilievo nella tradizione
alimentare. Viene preparato a zuppa, alla pizzaiola con capperi, olive, cipolla
e pomodoro, lesso e condito con olio, limone e pepe, sbriciolato e soffritto
con abbondante cipolla per condire spaghetti e linguine. Tutte le preparazioni
alimentari adottano come condimento solo
olio extravergine d’oliva, il prodotto più rispondente ai principi fondamentali
della fisiologia umana,
a qualsiasi età. E’ ideale per piatti caldi e freddi, di cui
fissa e potenzia i sapori, poiché il nostro olio è gradevole e gustoso,sia da giovane quando, appena
spremuto, contiene tutta la fragranza dei frutti freschi, sia maturo,quando è
perfettamente limpido. Attore protagonista della tavola è poi il nostro vino. Robusto, corposo e aromatico il primitivo, definito “la carne dei
contadini” dal momento che,
oltre che una bevanda ha rappresentato, in passato, un
alimento, per il suo alto potere energetico.
Il nostro rappresenta il comprensorio a più alta produzione
vinicola e si distingue per l’ampia diversificazione del prodotto,che spazia
dai vini bianchi, leggeri e amabili, a quelli rosati, asciutti e fruttati, fino
a quelli rossi , vigorosi e sapidi, comprendendo tutta la gamma produttiva in
campo enologico..In genere i nostri cibi tradizionali vanno accompagnati dai
vini locali, più idonei ad un corretto abbinamento, perché da secoli si sono
integrati tra loro, fino a realizzare un felice connubio.
Dall’insieme emerge una cucina eclettica, ricca
d’ingredienti e capace di sorprese
esaltanti per il gusto, con i suoi piatti freschi, leggeri e saporiti
Un discorso a parte meritano i dolci, specialmente quelli
devozionali, che compaiono su tutte le tavole. Un’antica canzone popolare,
dedicata al Natale, ricorda che: “A ci
che lu zùcchere e a ci che lu mèle, a tùtte sfùme la ciumenère” a
testimonianza del fatto che, durante le feste, le pietanze
e i dolci tipici
erano presenti in ogni casa. Questo atavico attaccamento a certe tradizioni evi-
denzia l’annullamento di ogni discriminazione e la
sparizione di ogni tipo di classismo
dal mo-mento che, per
solennizzare le feste religiose, nessuno rinunciava al rituale gastronomico
rimasto fedele agli ingredienti ed alle ricette del passato. Rappresentava,
quindi, una manifestazione di ag-
gregazione popolare e di fusione spirituale.
Attualmente il loro uso ha perso il
significato origina-
rio ma, in passato, i
dolci e le pietanze della festa
rivestivano tutti un valore simbolico e la ritua-lità della preparazione e
della consumazione era connessa alla credenza che fossero apportatori di
di benessere fisico
oltre che spirituale. Strettamente legata alle varie tappe stagionali ed alle
feste che vi sono connesse, la preparazione in famiglia, quasi sempre corale,
era scandita dalla recita di
formule e di segni di croce ed aveva funzione di
ringraziamento a Dio per i prodotti della terra di cui erano composti. La loro
buona riuscita rappresentava un motivo di vanto per le donne ed era considerata
anche di buon auspicio, altrimenti diventava motivo di malumore e di ansia per
even-
tuali malanni o ristrettezze economiche.
Pur nella estrema semplicità degli ingredienti: farina,
acqua, sale, olio, cannella, sciroppo di vino o di fichi, le” cartellate” rappresentano il dolce
più poetico e raffinato della tradizione dolciaria lo- cale e di tutta la Puglia. Secondo una leggenda
popolare rappresentano le fasce per avvolgere Gesù
Bambino. Ad esse si accompagnano immancabilmente i “purcjìdde” gnocchetti della stessa
pasta
incavati su una superficie rugosa o bucherellata. Per i
bambini, a Natale, si preparavano anche
dei
dolci a forma di stelle
con un foro al centro : “ i
peccelatjìdde”. Rappresentavano le stelle che avevano illuminato la notte
di Natale, perciò vi si infilava un nastrino e si appendevano ai rami di pino
che ornavano il presepe. I fidanzati regalavano alle loro innamorate un “ cuore”di pasta reale, simbolo di
amore sconfinato. Come contentino per i bambini, quando finivano le cartellate,
le mam-
me impastavano della
farina con vincotto, olio e cannella e preparavano dei dolcetti di forma trape-
zoidale: “ i mustazzuèle”, di facile esecuzione,
ma molto gustosi. A ringraziamento
della produ-
zione olearia, il giorno della festa di San Nicola, si
preparano ancora“ le pettole”, palline
di pasta molle e soffice, fritte in olio d’oliva appena prodotto. Un cibo devozionale , cui è legata una delicata
leggenda. Si racconta che, quando la Madonna era in visita presso Santa Elisabetta,
dopo aver impastato il pane, si misero a
chiacchierare, vagheggiando entrambe l’aspetto e le doti dei loro
nascituri,dimenticando di controllare la lievitazione della pasta. Quando si
accorsero che era lievita- ta
eccessivamente, pensarono di friggerla in piccoli quantitativi alla volta e così nacquero le pettole.
Nel periodo di Natale compariva sulla tavola il torrone di
mandorle con e senza buccia. Il torrone
con le mandorle tostate e non sbucciate si chiama:” cupète”.
Fra Natale e Carnevale
si procedeva all’uccisione del maiale, che molte famiglie allevavano.
Per solennizzare la festa che si svolgeva al termine della preparazione dei
salumi, veniva offerto a tutti i partecipanti all’operazione ed a parenti e
vicini “ u sangìcchj”,il
sanguinaccio ottenuto,mescolando
al sangue del maiale
diversi aromi e facendolo cuocere a fuoco lento.
Per gustare appieno il sapore del vino e favorirne le
bevute, durante i banchetti tra parenti ed amici,
si preparavano in casa i “taralli”, aromatizzati con
semi di finocchio o pepe. Avevano la forma di cerchietto o bastoncino, simboli degli organi sessuali.
Nel lungo periodo di astinenza della Quaresima, s’inseriva la festa tanto attesa di
San Giuseppe che, insieme
all’allegra tradizione del falò, consentiva la piacevole trasgressione delle “falle” pan-
zerottini di pasta frolla ripieni di marmellata d’uva da
vino con tutti i noccioli,mescolata a mandor-
le, noci e cannella.
Chi era a corto di
marmellata, preparava dei dolcetti a forma di losanghe “i pesckaròdde”le pietruzze, a base di farina, zucchero, mandorle
tritate e uova. Un’altra
trasgressione all’astinenza
quaresimale, durante la quale, esclusa la pasta condita con la mollica fritta “ u
furmàgge da Qua- rèseme” il pasto abituale era a base di verdura,
legumi e baccalà, era rappresentata dai panzerotti di ricotta, preparati per
solennizzare la festa delle Palme. Si potevano lessare e condire con sugo di
pomodoro o friggere e servirli, a fine pasto.
Per il Venerdì Santo s’usava preparare il” calzone” una focaccia ripiena di
cipolle novelle “ i spunzèle” , olive
snocciolate, capperi, uva passa, filetti di acciughe. Un misto di dolce e
salato, d’ascendenza araba, molto
apprezzato dai buongustai.
Dolci rituali della Pasqua, oltre ai taralli con le uova
ricoperti di candida glassa,sono le “scarcelle”
guarnite di uova in numero dispari per sollecitare influssi
propiziatori. Hanno forma di panierini,di asinelli con le uova nella bisaccia,
colombe, farfalle ed ancora vere e proprie sculture rappresentanti “ u mòneche e a mòneche”, con una
corona di uova sotto la tonaca. Questa usanza si rifà ad un antichissimo rito
pagano, collegato al risveglio della natura, in cui l’uovo è considerato
simbolo di rinascita. Per questo regalare un uovo significa regalare
l’eternità, insopprimibile aspirazione umana. Il vertice della perfezione
artistica si raggiunge nella preparazione di dolci di pasta reale, (in origine appannaggio dei monasteri) che imitano i
frutti e gli animali. Per Pasqua si
notano nelle vetrine delle pasticcerie agnellini di varie dimensioni che vengono regalati ai
bambini ed anche alle
fidanzate, usanza molto diffusa in passato, ma attualmente
insidiata dall’intrusione delle uova di cioccolato.
Un discorso a parte meritano i fichi secchi, preparati
seguendo una tecnica tramandataci dagli Arabi, per conservare tutte le loro
proprietà nutritive e la loro morbidezza. Seccati, interi o spaccati in due, su
graticci di canne “ i cannìzze” vengono lavati e infornati,poi riposti in
profonde “capase” disposti a strati,
aromatizzati con foglie di alloro e semi di finocchio. Venivano assaggiati la
prima volta il giorno dei Morti, quando venivano distribuiti ai bambini. Quelli
farciti di mandorle tostate e filetti di buccia di limone, venivano riservati
alle tavolate di Natale.
Non vanno dimenticati i rosoli e gli sciroppi preparati,
dosando sapientemente gli ingredienti.
Primo fra tutti il “nocino”
per il quale le noci vanno raccolte il giorno di San Giovanni. E poi il rosolio al limone, al mandarino, all’alloro, alla mortella,
il digestivo alle foglie di amarene messe in infusione in alcol e vino
primitivo. Un ricco e vistoso patrimonio da tutelare con impegno,perché non vada disperso.
Domenica Terrusi